Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/600

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327.— Dolci gli essempi, e dolci e belle invero
son le ragion — diss’ella —, Alme immortali,
con cui cercate agevole e leggiero
rendermi il fascio di sí gravi mali.
Ma di temprar in vece il dolor fiero,
voi l’inasprite con pungenti strali,
ché ’l rimembrar de’ vostri antichi danni
raddoppia forza ai miei presenti affanni.

328.Lassa, non piú del Ciel chiaro Pianeta,
non piú son io d’Amor madre gioconda,
non sarò piú la Dea ridente e lieta,
ma di doglie e di pianti Hidra feconda.
Questo mio cinto, ch’ogni sdegno acqueta,
vo’ che si cangi in Vipera iraconda.
Vo’ che di rose in vece il biondo crine
mi vengano a cerchiar triboli e spine.

329.Diverranno i bei mirti, i vaghi fiori
neri cipressi omai, stecchi pungenti.
Le Grazie amorosette e i grati Amori
Furie crudeli ed orridi Serpenti.
Còmici infauste e nunzie di dolori
le semplici Colombe ed innocenti.
Simile ai Corvi vestirá ciascuno
de’ miei candidi Cigni abito bruno.

330.Deh perché da la man di Radamanto
ricomprar non poss’io l’amato Amore?
Ché ’l core e l’alma io pagherei col pianto,
quando non fusser suoi Camma e ’l core.
Perché non potè almeno impetrar tanto
dal destin rigoroso il mio dolore,
che se ’n terra tra’ fior giace il bel velo,
tra le stelle lo spirto abiti in Cielo?