Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. II, 1912 – BEIC 1873537.djvu/368

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rotto dal serpente, cioè dannifícato da Macometto per la sua nuova legge), fu e non è, cioè fu Chiesa e non è piú tale, perché possiede ricchezze temporali e perché è traslatato in Avignone. Ma chi n’è cagione (dico Clemente quinto, pontefice, e Filippo il bello, re di Francia) credasi che la vendetta di Dio non teme suppe, cioè non si dimentica per beni usurpatisi a San Pietro e mangiatisi in Chiesa.

Questo è realmente il vero intendimento di Dante: vero insieme e falso. Vero in quanto all’intenzion delPautore, il quale si vede che questo e non altro volse inferire; ma falso in quanto alla natura della cosa, non essendo i papi usurpatori delle rendite temporali, ma legittimi signori di quelle e liberi dispensatori, come da’ buoni teologi è stato mostrato. Onde empietá ed irriverenza, piú tosto che sentenza o giudicio, viene ad essere quella d’un privato cristiano il qual voglia porvi bocca, non toccando tal decisione a noi. E certamente ch’egli è una gran maraviglia che quel volume, non ostante questa bestemmia e moltissime altre piú esecrabili le quali contien per tutto, si sia si lungamente preservato dalla proibizion de’ superiori e tuttavia si preservi. Ma la sua ventura è stata, ed è, la sola oscuritá del suo inchiostro; perché, essendo egli da pochi inteso, pochi può scandalizare, i quali ancora, come savi, il compatiscono e nessuno il denunzia all’Inquisizione. Cosi appunto, per quel che dicono i naturalisti, avviene alla seppia, la quale per salvarsi dalla caccia del pescatore sparge similmente il suo inchiostro nativo; ed in questa guisa, oscurata l’acqua intorno a se stessa, si fabbrica la commoditá alla fuga ed allo scampo. Che vero sia che Dante se parlasse chiaro non sarebbe tollerato, si vede dall’essere proibito il Landino, disciferatore di tutti i suoi predetti enigmi; si che d’una medesima opera il testo è permesso ed il commento è vietato. Or lasciamolo insomma correre per le mani dotte, mentre per altro n’è degno, e condoniamo i suoi errori al buon zelo che li cagiona.

Riverisco per fine Vostra Eminenza.

Di Roma, 4 settembre 1643.