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166 parte quarta


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     — Verrá, non andrá molto, e ’l suo viaggio
fia che fermi in Trinacria astuto greco
— Temelo giá mi disse, — e nel tuo speco
orbo faratti con perpetuo oltraggio. —
     Io, che dal tuo possente e vivo raggio,
ninfa, gran tempo è giá, son fatto cieco,
di sí folle presagio ho riso meco,
e ’l famoso indovin stimo men saggio.
     Pur, se fusse ciò ver, ben mi dorrei,
non ch’io perdessi giá questo, ch’ognora
lume ne la mia fronte ampio riluce,
     quanto che te mirar tolto mi fôra:
ché non per altro un cielo esser vorrei
che per aprir mill’occhi a tanta luce.

7


     — O pescatori, che ’n su curvi abeti,
ove, non rotta dal furor di Scilla,
fa specchio al ciel seren l’onda tranquilla,
turbate ai pesci i fidi lor secreti,
     mirate questa mia, che ’n grembo a Teti
stassi e dolce fra l’acque arde e sfavilla,
c’ha ne’ begli occhi, ond’ogni grazia stilla,
l’arme pungenti e nel bel crin le reti.
     Nocchieri, e voi, che i tesi lini a volo
spiegate, a che cercar piú faro o stella,
s’avete in un bel viso il porto e ’l polo? —
     Cosí sovra una rupe, afflitto e solo,
il fier, ch’ardea di Galatea la bella,
temprò cantando il grave incendio e ’l duolo.