Pagina:Marino Poesie varie (1913).djvu/402

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390 parte nona

     Quindi apprendesti la bella virtú
d’essere forfante, ed alla bubalá
tutto ’l dí cantar versi in su e in giú.
     E t’avezzasti errante in qua e in lá,
a scrivacchiar di questo ed or di que’,
ed a dir mal dell’istessa bontá.
     Il non scriver giá mai fôra il tuo me’,
perché, quanto composto hai tu sin qui,
ti si può dir da tutto il mondo: — Asé!
     Mi disse un gondolier che non so chi
non so che sonettacci gli recò,
ma, sapendo esser tuoi, se ne forbí.
     E acciò che i vizi ti facesser pro,
perché straccio di lingua non vi fu,
gli ti corresse tutti e gli acconciò.
     Altro bisogna al can che far «bu-bu»,
e far mostra di denti a chi gli dá,
e poi fuggir, com’il falcon la gru.
     Dunque, tu non sei cane in veritá,
ma un di quei cotai che fan «be-be,»
anzi un di quelli a cui si dice: — Sta’! —
     Bestia maggior non vidde mai Noè,
Ardena, Arconia, il Polai e il Sinaí,
o quel deserto dove fu Mosè.
     Un altro passo ancor soviemmi qui:
che ti diletta, e non mi dir di no,
quel gioco che piaceva ad Occhialí.
     Or questo volentier creder ti vuo’,
e voglio in fronte, a guisa di Taú,
la tua bontá scriverti con un O.
     Mi meraviglio come ancor le gru
non t’abbian con lor graffi tratto giá
Graffignan, Libicocco e Mazzabú.
     Pensi smaltir con il dir mal d’un fra’,
né sai tu stesso dir come o perché,
e sei da men dell’H e men del K.