Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/463

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cenda, discorrendo delle soperchierie patite, delle invernate di stenti, mentre c’era della gente che aveva i magazzini pieni di roba, dei campi e delle vigne!... Pazienza i signori, che c’erano nati... Ma non si davano pace, pensando che don Gesualdo Motta era nato povero e nudo al par di loro. — Se lo rammentavano tutti povero bracciante. — Speranza, la stessa sua sorella predicava lì, di faccia alla bandiera inalberata sul Palazzo di Città, ch’era giunto alfine il momento di restituire il mal tolto, di farsi giustizia colle proprie mani. Aizzava contro allo zio i suoi figliuoli che s’erano fatti grandi e grossi, e capaci di far valere le loro ragioni, se non fossero stati due capponi, come il genitore, che s’era acquetato subito, quando il cognato aveva mandato un gruzzoletto, allorchè Bianca stava male, dicendo che voleva fare la pace con tutti quanti, e dei guai ne aveva anche troppi. Giacalone, a cui don Gesualdo aveva fatto pignorar la mula pel debito del raccolto, l’erede di Pirtuso, che litigava ancora con lui per certi denari che il sensale s’era portati all’altro mondo, tutti coloro che gli erano contro per un motivo o per l’altro, soffiavano adesso nel fuoco, dicendone roba da chiodi, raccontando tutte le porcherie di mastro-don Gesualdo, sparlandone in ogni bettola e in ogni crocchio, stuzzicando anche gli indifferenti, con quella storia delle terre comunali che dovevano spartirsi