Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/496

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il capo a codesto, chinare il capo a medici e medicamenti. Il figlio di Tavuso, Bomma, quanti barbassori c’erano in paese, tutti sfilarono dinanzi al letto di don Gesualdo. Arrivavano, guardavano, tastavano, scambiavano fra di loro certe parolacce turche che facevano accapponar la pelle, e lasciavano detto ciascuno la sua su di un pezzo di carta — degli sgorbi come sanguisughe. Don Gesualdo, sbigottito, non diceva nulla, cercava di cogliere le parole a volo; guardava sospettoso le mani che scrivevano. Soltanto, per non buttare via il denaro malamente, prima di spedire la ricetta, prese a parte don Margheritino, e gli fece osservare che aveva un armadio pieno di vasetti e boccettine, comperati per la buon’anima di sua moglie. — Non ho guardato a spesa, signor dottore. Li ho ancora lì, tali e quali. Se vi pare che possano giovare adesso...

Non gli davano retta neppur quando tornava a balbettare, spaventato da quelle facce serie: — Mi sento meglio. Domani mi alzo. Mandatemi in campagna che guarirò in ventiquattr’ore. — Gli dicevano di sì, per contentarlo, come a un bambino. — Domani, doman l’altro. — Ma lo tenevano lì, per smungerlo, per succhiargli il sangue, medici, parenti e speziali. Lo voltavano, lo rivoltavano, gli picchiavano sul ventre con due dita, gli facevano bere mille porcherie, lo ungevano di certa roba che gli apriva dei vescicanti sullo