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atto secondo 193

SCENA V

Fulvio e detti.

Fulvio.  Ormai
consolati, signor; la tua fortuna
degna è d’invidia. Ad ascoltarti alfine
scende Catone. Io di favor sí grande
la novella ti reco.
Emilia.  (Ancor costui
mi lusinga e m’inganna.)
Cesare.  E cosí presto
si cangiò di pensiero?
Fulvio.  Anzi il suo pregio
è l’animo ostinato.
Ma il popolo adunato,
i compagni, gli amici, Utica intera,
desiosa di pace, a forza ha svelto
il consenso da lui. Da’ prieghi astretto,
non persuaso, ei con sdegnosi accenti
aspramente assentí, quasi da lui
tu dipendessi e la comun speranza.
Cesare. Che fiero cor! Che indomita costanza!
Emilia. (E tanto ho da soffrir?)
Marzia. (a Cesare)  Signor, tu pensi?
Una privata offesa, ah! non seduca
il tuo gran cor. Vanne a Catone, e insieme,
fatti amici, serbate
tanto sangue latino. Al mondo intero
del turbato riposo
sei debitor. Tu non rispondi? Almeno
guardami; io son che priego.
Cesare.  Ah! Marzia...
Marzia.  Io dunque
a moverti a pietá non son bastante?