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192 iii - catone in utica


SCENA IV

Marzia, poi Emilia, indi Cesare.

Marzia. E qual sorte è la mia! Di pena in pena,
di timore in timor passo, e non provo
un momento di pace.
Emilia.  Alfin partito
è Cesare da noi. So giá che invano
in difesa di lui
Marzia e Fulvio sudò; ma giovò poco
e di Fulvio e di Marzia
a Cesare il favor. Come sofferse
quell’eroe sí gran torto?
Che disse? Che fará? Tu lo saprai,
tu che sei tanto alla sua gloria amica.
Marzia. Ecco Cesare istesso: egli tel dica.
 (vedendo venir Cesare)
Emilia. Che veggo!
Cesare.  A tanto eccesso
giunse Catone! E qual dover, qual legge
può render mai la sua ferocia doma?
È il senato un vil gregge!
È Cesare un tiranno! Ei solo è Roma!
Emilia. E disse il vero.
Cesare.  Ah! questo è troppo. Ei vuole
che sian l’armi e la sorte
giudici fra di noi? Saranno. Ei brama
che al mio campo mi renda?
Io vo. Di’ che m’aspetti e si difenda.
 (in atto di partire)
Marzia. Deh! ti placa. Il tuo sdegno in parte è giusto,
il veggo anch’io; ma il padre
a ragion dubitò. De’ suoi sospetti
mi è nota la cagion; tutto saprai.
Emilia. (Numi, che ascolto!)