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atto secondo 205


SCENA XIII

Arbace e detti.

Arbace. Signor, so che a momenti
pugnar si deve: imponi
che far degg’io. Senz’aspettar l’aurora,
ogn’ingiusto sospetto a render vano,
vengo sposo di Marzia. Ecco la mano.
(Mi vendico cosí.)
Catone.  Nol dissi, o figlia?
Marzia. Temo, Arbace, ed ammiro
l’incostante tuo cor.
Arbace.  D’ogni riguardo
disciolto io sono, e la ragion tu sai.
Marzia. (Ah, mi scopre!)
Arbace.  A Catone
deggio un pegno di fede in tal periglio.
Catone. Che tardi? (a Marzia)
Emilia.  (Che fará?)
Marzia.  (Numi, consiglio!)
Emilia. Marzia, ti rasserena.
Marzia. Emilia, taci.
Arbace.  Or mia sarai. (a Marzia)
Marzia.  (Che pena!)
Catone. Piú non s’aspetti. A lei
porgi, Arbace, la destra.
Arbace.  Eccola! In dono
il cor, la vita, il soglio
cosí presento a te.
Marzia.  Va’! non ti voglio.
Arbace. Come!
Emilia.  (Che ardir!)
Catone.  Perché? (a Marzia)