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92 xvii - zenobia


Zenobia. Ah! signor, se t’odiassi, io resterei.

Temo la tua presenza: ella è nemica
del mio dover. La mia ragione è forte;
ma il tuo merito è grande. Ei basta almeno
a lacerarmi il core,
se non basta a sedurlo. Oh Dio! nol vedi
che innanzi a te... che rammentando... Ah! parti:
troppo direi. Rispetta
la mia, la tua virtú. Sí, te ne priego
per tutto ciò che hai di piú caro in terra
o di piú sacro in ciel, per quell’istesso
tenero amor che ci legò, per quella
bell’alma che hai nel sen, per questo pianto
che mi sforzi a versar, lasciami, fuggi,
evitami, signore.
Tiridate.   E non degg’io
rivederti mai piú?
Zenobia.   No, se la pace,
no, se la gloria mia, prence, t’è cara.
Tiridate. Oh barbara sentenza! oh legge amara!
Zenobia.   Va’, ti consola, addio;
     e da me lungi almeno
     vivi piú lieti dí.
Tiridate.   Come! tiranna! Oh Dio!
     strappami il cor dal seno,
     ma non mi dir cosí.
Zenobia.   L’alma gelar mi sento.
Tiridate.   Sento mancarmi il cor.
A due.   Oh che fatal momento!
     che sfortunato amor!
          Questo è morir d’affanno;
     né que’ felici il sanno,
     che sí penoso stato
     non han provato ancor.

Prima che termini il duetto, comparisce Zopiro in lontano, e s’arresta ad osservar Zenobia e Tiridate, che partono poi senza vederlo.