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162 iii - catone in utica


da barbara ferita
per lui sugli occhi al traditor d’Egitto
cadde Pompeo trafitto; e solo in queste
d’Utica anguste mura,
mal sicuro riparo,
trova alla sua ruina
la fuggitiva libertá latina.
Cesare abbiamo a fronte,
che d’assedio ne stringe; i nostri armati
pochi sono e mal fidi. In me ripone
la speme, che le avanza,
Roma, che geme al suo tiranno in braccio;
e chiedete ragion s’io penso e taccio?
Marzia. Ma non viene a momenti
Cesare a te?
Arbace.  Di favellarti ei chiede:
dunque pace vorrá.
Catone.  Sperate invano
che abbandoni una volta
il desio di regnar. Troppo gli costa,
per deporlo in un punto.
Marzia. Chi sa? Figlio è di Roma
Cesare ancor.
Catone.  Ma un dispietato figlio,
che serva la desia; ma un figlio ingrato,
che, per domarla appieno,
non sente orror nel lacerarle il seno.
Arbace. Tutta Roma non vinse
Cesare ancora. A superar gli resta
il riparo piú forte al suo furore.
Catone. E che gli resta mai?
Arbace.  Resta il tuo core.
Forse piú timoroso
verrá dinanzi al tuo severo ciglio,
che all’Asia tutta ed all’Europa armata:
e, se dal tuo consiglio