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atto secondo | 133 |
SCENA X
Artabano e detti.
Artabano. È vana
la tua, la mia pietá. La sua salvezza
o non cura, o dispera.
Artaserse. E vuol ridurmi
l’ingrato a condannarlo?
Semira. Condannarlo? Ah, crudel! Dunque vedrassi
sotto un’infame scure
di Semira il germano,
della Persia l’onore,
l’amico d’Artaserse, il difensore?
Misero Arbace! inutile mio pianto!
vilipeso dolor!
Artaserse. Semira, a torto
m’accusi di crudel. Che far poss’io,
se difesa non ha? Tu che faresti?
Che farebbe Artabano? Olá! custodi,
Arbace a me si guidi: il padre istesso
sia giudice del figlio. Egli l’ascolti:
ei l’assolva, se può. Tutta in sua mano
la mia depongo autoritá reale.
Artabano. Come!
Mandane. E tanto prevale
l’amicizia al dover? Punir nol vuoi,
se la pena del reo commetti al padre.
Artaserse. A un padre io la commetto,
di cui nota è la fé; che un figlio accusa,
ch’io difender vorrei; che di punirlo
ha piú ragion di me.
Mandane. Ma sempre è padre.
Artaserse. Perciò doppia ragione
ha di punirlo. Io vendicar di Serse
la morte sol deggio in Arbace. Ei deve