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Pagina:Mill - La liberta, Sonzogno, Milano.djvu/21

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CAPITOLO SECONDO




LA LIBERTÀ DI PENSIERO E DI DISCUSSIONE.

È lecito sperare che sia trascorso il tempo in cui sarebbe stato necessario difendere la libertà di stampa come una guarentigia contro un governo corrotto o tirannico; oggi, io penso, non c’è più bisogno d’eccitare gli uomini alla ribellione contro qualunque potere, legislativo o esecutivo, i cui interessi non fossero identificati con quelli del popolo e che pretendesse di prescrivergli delle opinioni e di stabilire quali dottrine o quali argomenti gli sia permesso di sentire. D’altra parte, questo aspetto della questione è stato già così spesso trattato, e in modo così splendido, che qui non occorre d’insistervi più specialmente. Sebbene la legge inglese sulla stampa sia oggi così servile come lo era al tempo dei Tudor, pure v’è ben poco pericolo che oggi se ne faccia uso contro la discussione politica, salvo che durante qualche panico passeggiero, quando il timor della insurrezione trascina ministri e giudici fuori del loro stato normale1. In generale, non v’è a temere, in un paese costituzionale, che il governo (sia esso o no pienamente responsabile di fronte al popolo) tenti spesso di sorvegliare l’espressione delle opinioni, eccettuato il caso in cui, così agendo, esso divien l’organo della generale intolleranza del pubblico.

  1. Queste parole erano appena scritte, quando, quasi per dar loro una solenne smentita, sopravvennero le persecuzioni del governo contro la stampa, nel 1858. Questo sconsigliato intervento nella libertà della pubblica discussione non mi ha indotto a mutare una sola parola del testo; e non ha punto affievolito la mia convinzione che salvo nei momenti di panico l’epoca delle penalità per le discussioni politiche era passata nel nostro paese. Infatti, anzitutto non si perseverò nelle persecuzioni; e inoltre non si trattò mai di persecuzioni politiche, nello stretto senso della parola: l’offesa rimproverata non era di aver criticato le instituzioni, o gli atti, o le persone dei governanti; ma bensi d’aver propagato una dottrina ritenuta immorale, la legittimità del tirannicidio.