Pagina:Misteri di polizia - Niceforo, 1890.djvu/63

Da Wikisource.
50

pene ci rivela che la presidenza del Buon Governo dalle mani d’Aurelio Puccini, l’ex-giacobino del 1799, era passata in quelle di Torello Ciantelli, il presidente-poliziotto che nella mite Toscana aspirava ad emulare le glorie sbirresche del principe di Canosa. Quasi nello stesso tempo, Paolo Pieroni, medico-chirurgo, era condannato, sempre in via economica e per scritti sediziosi, a otto mesi di relegazione a Grosseto. Era stata rinvenuta presso di lui la famosa lettera di Giuseppe Mazzini a Carlo Alberto — la pagina, crediamo, più eloquente che sia uscita dalla penna del celebre agitatore, e che in quei giorni doveva appassionare fortemente gli animi dei liberali, se essa, come corpo di reato, figura quasi in tutte le perquisizioni domiciliari che precedevano ed accompagnavano i processi che allora imbastiva il potere economico o quello giudiziario.

Coloro che sfuggirono alla prigione, alla relegazione, o allo sfratto, non isfuggivano alla sorveglianza minuziosa, di tutti i giorni, di tutte le ore, della Polizia. La vecchia macchina impiantata, nel 1814, da Aurelio Puccini, nel 1833 non bastava più a tener dietro alle associazioni, alle sètte, alla diffusione dei libri e degli scritti sediziosi, allo spionaggio, al viavai dei forestieri sospetti, al carteggio coi famosi amici di dentro e di fuori. Il Bologna, il quale succedeva nella presidenza del Buon Governo al Ciantelli nell’agosto del 1832, quando l’eco delle giornate di Parigi, di Bruxelles e di Varsavia, che avevano avuto il loro contraccolpo in Italia non era ancora spenta, in una relazione al Granduca diceva che il lavoro era divenuto due volte maggiore di prima ed implorava che un funzionario intelligente ed accorto gli fosse addetto in qualità di collaboratore, specie per la parte politica e riservata. E proponeva che a tale ufficio si nominasse Francesco Paoli, vicario di Lari, uomo rotto agli affari, sopratutto a quelli loschissimi della polizia, che nel 1818, spedito apparentemente a Livorno in qualità di commissario, di nascosto riferiva al Puccini sugli andamenti del marchese Paolo Garzoni-Venturi, governatore della città.