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della lingua italiana 33

lingua se non per quel tanto che ce n’è stato tramandato dai libri e dalle iscrizioni; perciò si è cercato di stabilire se il latino scritto e il latino parlato fossero una stessa cosa, o se ci corressero più o men notevoli differenze.

Leonardo Bruni d’Arezzo (1369-1444) e Celso Cittadini di Roma (non di Siena, come comunemente si crede — 1553?-1627), il secondo dei quali ebbe lampi d’intuizione filologica maravigliosi per il suo tempo, sostennero che la lingua della plebe romana fosse quasi del tutto diversa da quella delle classi cólte e specialmente degli scrittori.1

Trovando nel latino arcaico voci come aurom (oro), consol (console), ecc., le quali somigliano all’italiano, più che non gli somiglino le corrispondenti del latino classico (aurum, consul), il Cittadini capitombola quasi nell’opinione che fu poi, come abbiamo visto, sostenuta dal Quadrio, e che il Muratori giustamente chiamò un sogno, indegno persino d’essere confutato.2

Il Bruni, dal canto suo, arrivò a dire che i Romani non cólti intendessero il linguaggio de-

  1. Leonardi Bruni Arretini, Epistolarum libri VIII; Florentiae, 1741; lib. VI, epist. X (Leonardus Flavio Foroliviensi). — Celso Cittadini, Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua; Venezia, Ciotti, 1601. — Le origini della toscana favella; Siena, Marchetti, 1604. — Furono ripubblicati nelle Opere edite ed inedite del Cittadini, per cura di Girolamo Gigli, Roma 1721. Ma, a detta dello Zeno (Annotaz. al Fontanini), per il secondo trattato il Gigli seguì l’ediz. Marchetti, invece d’un’altra riformata dall’autore e tanto migliore, uscita in Siena per Ercole Gori nel 1628.
  2. “Somnium....... nulla confutazione dignum.„ (Antiq. Ital., Diss. XXXII; tom. VI, col. 455 dell’ediz. d’Arezzo, 1775.)
3 — Morandi, Origine della Lingua italiana