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sicurezza di mano, quel vigore costruttivo che per molti critici d’allora furono una rivelazione. Con Turandot, Puccini fa in un certo senso la manovra inversa: è lui a piegare la formula, ad adattare il «grand opèra» al suo intimo sentire. Talchè non ei accade quasi mai di vederlo spaesato, ma piuttosto di osservare con meraviglia come il suo potere trasfigurativo riesca, attraverso immagini aderenti e sostanziose, ad «avvicinare» a noi figure e paesaggi fiabeschi lontani per definizione. Quando l’opera apparve, nel ’26, ciò fu poco avvertito, e comunque da pochi. Allora molti pensavano che Turandot, sfumati i patetici vapori celebrativi, non potesse praticamente accompagnarsi alle onnipresenti eroine pucciniane. Il tempo si è incaricato di metterla nel suo giusto punto focale e, insomma, di ratificarne la vitalità.

Consideriamo l’edizione attuale della Scala, diretta con indiscussa autorità da Antonino Votto, tra le più felici a cui ei sia stato dato di assistere. (Eravamo presenti anche alla prima, nel lontano ’26). Benois e il pittore cinese Chou Ling, incaricati della scenografia e dei figurini, la regista signora Wallmann, e la coreografa Luciana Novaro non hanno mirato al «Kolossal» fine a se stesso, ma piuttosto all’armoniosa composizione di un quadro che integrasse i valori espressivi della musica. Fra gl’interpreti si può dire veramente superba la svedese Birgit Nilsson, per colore vocale, intensità di fraseggio e straordinaria risonanza del registro acuto, specie tra il la e il do. Sempre ricco di comunicativa il canto del tenore Di Stefano: come pure quello della Carteri che era Liù. Tra gli altri, ottimi il baritono Capecchi e il basso Modesti. Il coro diretto dal Mola è stato questa volta superiore alla sua giusta fama.

Carissimi inedito all’Angelicum

All’Angelicum, che passerà probabilmente alla storia come «Casa del Carissimi», altri due oratori si aggiungono ai dodici già eseguiti — e incisi — con tanto successo dal complesso musicale dei Frati Minori. Si tratta dell’Historia divitis, ispirata alla parabola evangelica del ricco epulone, e del Diluvium universale, libera parafrasi di un passo della Genesi, con spunti virgiliani le copie manoscritte degli originali, certo dispersi, furono rintracciate rispettivamente alla Biblioteca Nazionale di Parigi e alla Biblioteca di Amburgo. La realizzazione per orchestra dei due oratori è opera di Bruno Maderna. Nella lezione originaria, infatti, oltre al basso continuo dell’organo, vi erano, limitatamente alla Historia divitis, parti di primo e secondo violino, destinate più che altro a sostenere il coro.

Dei due, l’Historia ha forse accenti più nuovi, modulazioni più inconsuete (vedi il «Jam satis edisti» del Chorus Daemonum, oppure il «Morere, infelix» ) ed anche un’articolazione più singolare in quei suoi concertati avanti lettera, con intervento di solisti e coro, che anticipano di un buon secolo le larghe «aperture» del melodramma. Ma il Diluvium appare dal canto suo più organico forse perchè più vicino, anche sotto l’aspetto tematico (il rapinoso «Agite, ruite, currente austri» dell’Angelorum Chorus è lì a dimostrarlo), ai grandi affreschi sonori di Jephte e di Jonas. In altre parole, non è da escludere che quest’impressione di maggior compattezza e di più ispirato vigore espressivo del Diluvium derivi da una familiarità che i capolavori citati giustificano. (È sempre difficile sottrarsi a certe suggestioni).

Comunque, nell’uno e nell’altro oratorio si è potuta ammirare ancora una volta l’interpretazione drammatica del senso religioso, propria di


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