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ciampava, non si sa perchè, pensò che se Giovanna dovesse un giorno far divorzio, ella avrebbe pregato Paolo d’esser l’avvocato di sua figlia.
Quando giunsero davanti al Tribunale i vetri delle finestre chiuse riflettevano ancora la luminosità del mattino; nella piccola piazza alcuni compaesani, testimoni del processo, circondarono le due donne ripetendo la solita parola:
— Coraggio! coraggio!
— Ah, coraggio! Ma noi ne abbiamo, ma lasciateci in pace! — disse zia Bachisia, passando fiera come una cavalla indomita. Ella sapeva ben la strada e andò dritta nell’aula triste e fatale.
Giovanna la seguì, seguirono i compaesani; ed entrò anche qualche curioso sfaccendato, ed anche una donna lunga e sdentata con gli occhi loschi.
I giurati, quasi tutti vecchi e grassi, sedevano già ai loro posti; alcuni di essi con folte barbe e occhi fieri, parevano decisi già a condannare l’accusato.
Il presidente invece aveva un viso bonario, roseo, circondato d’una scarsa barba bianca; mentre il pubblico ministero coi suoi baffi biondi diritti in un viso sanguigno di prepotente non cercava di nascondere i suoi propositi feroci: e tutti quei funzionari, cancellieri, uscieri, scrivani, con le loro toghe nere, apparivano a Giovanna come maghi crudeli venuti lì per stregare fatalmente il povero Costantino.