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agitavano pure oscuramente le voci della giovinezza in fiore. La sua castità che era insieme educazione e temperamento aveva ricevuto una fiera scossa, un giorno.
Era d’inverno. La nebbia che copriva da qualche tempo la città rendeva più scuri, più tetri, più inquietanti i neri angiporti che a Ferrara inducono pensieri di agguati perenni o di misteriosi convegni. Tornando dal Liceo a casa sull’imbrunire di quelle brevi giornate di dicembre, Meme, che non aveva posto mente ad una forma femminea accoccolata nell’ombra, si trovò preso quasi a tradimento fra due braccia audaci e nella rapida lotta che ne seguì il disgusto fu così profondo che egli doveva per tutta la vita riportarne l’amarezza come di fonte intor- bidata alle sue scaturigini.
Il periodo aperto da quella volgare avven- tura fu dei più tristi per Meme. Nel suo regno incantato, nel meraviglioso giardino dove fiorivano i rosai del sogno, era penetrata la biscia immonda. Egli poteva bensì scacciarla ma non distruggerne la memoria. che è il dolore se non il ricordo sempre presente del male? Quegli solo è felice che non sa. La