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Perchè sono celibe. 189

nunciare quel che mi avrebbe reso padrone... Santi dèi! Una particella così minima, ultima ruota della grammatica, sillaba perduta nel gran vocabolario delle lingue umane, avere un significato così potente!

Io amo, adoro una donna — darei il mio sangue per possederla — mi struggo di desiderio — piango, smanio, deliro, imploro — nulla. Ella mi mostra l’uscio.

Ritorno — giuro quel — e le parti cambiano. È lei che piange, che delira — è lei che implora. Io comando — è mia!

C’è da perdere la testa. Mia! — Basta; mi viene la pelle d’oca soltanto a pensarci.

Una sera, dopo aver salutato mio suocero e stretto due terzi della vita di Francesca, m’avviavo fuori dell’anticamera, quando vidi il domestico che ranicchiato in un angolo diceva flebilmente.

— Mi perdoni, signor Gregorio, se non vengo ad aprire l’uscio — non posso muovermi.

— Oh! che avete mio buon Martino?

— Ho gli stivali signore.

— Con entro i piedi?

— Pur troppo!

— Ed è questo che vi impedisce di alzarvi?

— Cospetto! Non si fanno cinque battaglie e otto scaramuccie senza che vi resti il segno; io fui ferito nei piedi.

— Come Achille.

— Era un soldato del mio reggimento costui?

— Non credo. Ma perchè avete abbandonato le vostre ciabatte questa sera?

— Devo uscire.