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che le poche voci degli uomini non riescono a turbarlo. La facciata trecentesca della chiesa di San Francesco, raccolta in nuda purità, chiude la piazzetta con il segno di Dio.

La fanciulla entra nella chiesa, s’inchina, porta alla fronte le dita intinte nell’acqua benedetta, siede ad un banco, in un angolo.

È il suo rifugio.

L’ascetica penombra odorosa d’incenso, l’anelito verso l’alto delle navate archiacute, i santi in estasi sulle vetrate, le Vergini giottesche offrenti il Bambino dalle colonne sono altrettante trasfigurazioni dell’anima sua. Qui ella sente le parole, «sempre» e «mai» terribilmente viventi nell’aria e nella pietra, e il loro significato ella vorrebbe concretare nei limiti del pensiero tesi fino allo spasimo; ma non può.

E prega. Non con umiltà. Ella non è umile: chi vive solo non è mai umile. Non implora: — Dio, aiutami — perchè il proprio dolore lo accetta come vita, e non crede di aver bisogno d’aiuto. Più che preghiera, la sua è comunione. Con le forze supreme, alle quali non dà volto ma