Pagina:Nietzsche - La Nascita della Tragedia.djvu/138

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86 capitolo nono


tenuto e l’anima della poesia eschilea, laddove Sofocle col suo Edipo intona l’inno vittorioso della santità. Ma anche con la significazione datagli da Eschilo, lo stupefacente abisso di terrore del mito non è misurato tutto: anzi la gioia di creare dell’artista, la serenità della creazione artistica di fronte a ogni sventura, non è altro che una distesa luminosa di cielo e di nubi, specchiata nel fosco lago della tristezza. Il mito di Prometeo è originariamente un’eredità comune della razza ariana, ed è un documento della sua attitudine alla profondità tragica; anzi si direbbe non senza verosimiglianza, che esso rispetto al genio ario possiede ingenita proprio la stessa caratteristica importanza, che per la stirpe semitica ha il peccato originale; e che tra i due miti corre il medesimo grado di parentela, che tra fratello e sorella. Il presupposto del mito prometeico è l’inestimabile valore che una umanità ingenua assegna al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà nascente e ascendente; ma che l’uomo disponga liberamente del fuoco, e che non lo riceva punto come un esclusivo dono del cielo in forma di folgore accendifuoco o di calore riscaldante del sole, cotesto ai contemplanti uomini primitivi parve empietà, parve una rapina alla natura degli dèi. E così stesso, il primo problema filosofico pianta un penoso e insolubile contrasto tra l’uomo e dio, e lo trascina come un macigno sulla soglia di ogni civiltà. Il bene migliore e più alto, a cui sia dato all’umanità di partecipare, lo consegue a prezzo di un misfatto: essa