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Pian d’Erba. Don Alfonso Isacchi aveva nome quel signore, ma tra i paesani erasi co’ suoi modi guadagnato il soprannome di Orso di Barzago. Colleroso, vendicativo, indifferente ai patimenti altrui, il rispetto all’umanità neppur di nome conosceva: le leggi paragonava alle reti, dove il tordo s’impiglia, la volpe o il falco le squarciano, e innanzi La religione non disprezzava già, ma, separandola dal costume, l’aveva ridotta a quella che ne veste le sembianze, benchè ne sia pessima nemica, la superstizione: talchè, se la coscienza avrebbe potuto richiamarlo od arrestarlo sulla carriera delle violenze, esso la addormentava con pratiche devote cui sapeva conciliare collo sfogo de’ suoi laidi e prepotenti capricci.

Chi entrasse nel suo castello, al vedere uccellacci confitti sullo imposte, pelli di lepri, teschi di lupi spenzolati alle pareti, falchi starnazzanti sulle grucce e fischi e panie e tagliuole in ogni lato, e cani sciolti o al guinzaglio, che abbajavano, squittivano scodinzolavano, e intorno campari, canattieri, guardaboschi, s’avvisava quanto egli fosse appassionato per la caccia. A ben peggiori segni se ne accorgevano i paesani, che spesso miravano folate d’uccelli, moltiplicati dalla disastrosa impunità, calarsi, a beccare i grani dal solchi appena sementati; od una furia di levrieri sbrancare ed uccidere il domestico pollame; ovvero uno stuolo di cacciatori, a piedi, a cavallo, spingersi in mezzo al miglio ed al frumento già spigato, e poco dopo ritornare, mostrando in trionfo quaglie o beccacce al povero contadino, che lagrimava perduto o decimato il sostentamento della sua famigliuola per l’insano divertimento dei padroni.