Pagina:Novelle lombarde.djvu/206

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Gran comitiva di donne, zitelle le più o fresche spose, nel calore della stagione cocente, dinanzi al fuoco ed alle caldajuole fumanti stanno lavorando, chi a svolgere gli aurei fili dai bozzoli, chi ad inasparli, mentre altre vanno rattizzando la vampa, o sciacquattando la bacaccia, o levando il saggio sul provino; e chi a pesare, a rimondare, a distribuire.

— Che pena! che noja!» direbbe il cittadino, per cui è beatitudine l’ozio; e crederebbe che deve tra loro regnare un dispettoso silenzio, una pazienza irosa. Tutt’al contrario. La gioja più vivace signoreggia nella filanda: qui racconti, qui motti arguti, qui singolarmente allegre canzoni, mal frenate dal severo piglio del padrone, che nei lauti ozj e nelle pingui speranze di lucro, trova a ridire che le assidue lavoratrici si ricreino dallo stento, cantando con quella serenità che è prodotta dalla gioventù, dall’abitudine della fatica, dalla pace di chi nel poco si appaga, e credesi nato per lavorare.

Molte di quelle donne vennero di lontano, abbandonando casa, parenti, conoscenti, amori, per mettersi qui alla soggezione, al calore, alla fatica: ma sanno che, per quel tempo, sollevano dalle spese le povere loro famiglie; sanno che alla fine riceveranno una ricompensa; scarsa se dovesse contarsi coll’occhio dell’uomo agiato, ma larga ai modesti desiderj; sanno che la recheran alle case, ove già calcolarono qual porzione darne alla madre pe’ suoi bisogni, mentre coll’altra si rinnoveranno, questa un guarnellino, quella un grembiule, l’altra gli ori, l’altra la tela da ammanire le biancherie pel venturo carnevale, quando andrà sposa al giovane che le parla.