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riti potrei ricordare. Per esempio de’ ragazzi che il giovedì santo fanno colà, come qui, un baccano colle raganelle; e quando una zitella si fa alla chiesa, le sono incontro, più numerosi e fragorosi quanto essa è più bella e rinomata, coi crepitacoli accompagnandola fin alla soglia del tempio.

Ora non più, ma dai vecchi ho inteso con quanta allegria, l’ultimo del carnevale, solcano i popolani di ciascun Comune raccogliersi sulla collina più aprica e vistosa del contorno, ove ad alto palo sospendevano un festone di zucche piene di vino; e finchè il dì non morisse, la scialavano ballonzando e cantando Viva l’allegria e Roma santa. La festa del Majo celebrano così. L’ultima notte d’aprile le forosette si fanno insieme, e di terra in terra van sotto alle finestre de’ principali vicini cantando al violino o alla zampogna le loro cobole rusticane. Un tal concerto, fra l’amico tacere d’una bella notte di primavera, fra quel tumulto d’affetti che suol destare la rinnovantesi stagione, va ben più al cuore che non le studiate armonie de’ colmi teatri.

Come poi è il dì, le cantatrici mandano la men timida e non men bella di loro alla busca nelle case festeggiate la notte; e del raccolto imbandiscono una merenda. Una, colla conocchia ornata di nastri e fiori, va a portar l’invito a chi lo merita: si mangia, si bee, si canta, si salta attorno all’albero che i garzoni piantarono; albero che, per rito, deve essere rubato.

Di simili serenate ho inteso più volte risonar le colline di Brianza nel fitto verno; quando la sera garzoni e fanciulle, usciti dalla stalla ove fanno la veglia, salgono a cantare Gennajo dalla buona