Pagina:Novelle lombarde.djvu/249

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          Questa volta non farmi la ritrosa,
     Ma sonoro m’accorda il ribechino,
     Che storia ho da narrar meravigliosa
          E perchè il libro non ho di Turpino,
     Oggi del tuo favor tanto mi dona,
     Che non rimanga a mezzo del cammino.

Ma non v’è poesia che valga quella che si presenta a chi si trovi a Vicenza, e in una giornata di maggio, splendida di sole, quando dalla berica pendice e dalla ubertosa pianura accorrono tutti i popolani a veder la festa; mentre dai palazzi più belli che l’Italia vanti, fanno pompa di sè donne tante vaghe e spiritose come sono le vicentine, ornate di tutta la squisitezza d’addobbi, di cui vuol far mostra una classe che, qui più che in qualsivoglia altra città veneta, ama sfoggiare ricchezza nelle case, nelle carrozze, nel teatro, nel vestire.

Ammiriamole di lontano; ma noi che siam popolo noi mescoliamoci alla folla e facciamoci in prima su quella piazza stupenda, ove campeggiano due colonne che si direbbero orientali, eppur vengono dalle cave vicine del Chiampo, ed emulano le favoleggiate della piazzetta di Venezia; poi il palazzo pretorio; poi la gran fabbrica del Monte di Pietà, opera di Giovan Battista Albanese vicentino, come l’interposta chiesa di San Vincenzo, ove sta pure la biblioteca, povero disegno del Mattoni.

          Mira il vago contrasto de’ sorgenti
     Edificj d’intorno, il vario stile
     Di forme, di comparti, d’ornamenti.
          Vedi la torre, lavoro gentile
     D’allor che giacque Italia all’insoave
     Giogo de’ Goti inonorata e vile.

Mira quella famosa basilica che è uno degli insignissimi monumenti della vita comunale italiana: