Pagina:Novelle lombarde.djvu/311

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ruta, intristita; non pareva più dessa. Dava in parte agli avventori, ma non più colla gaja ed ingenua alacrità di prima. Dall’altra banda, sopra un canto di tavola, stavasi quel giovane setajuolo, anch’egli sovra pensiero; mangiava un boccone, ma che pareva fargli nodo alla gola; sospirava; sorso la sua mezzina, poi se n’andò senza fare parola.

— Gioconda (diss’io alla fanciulla), m’avete cera di non essere del solito umore».

E la Gioconda, alzando una spalla, e balestrando certi occhi insoliti, mi voltò il dorso dicendo, — Ella ha buon tempo».

Incuriosito cercai la vicina. E questa, — Oh (mi disse) quanto è mutato ogni cosa! La Gioconda stava per diventare felice; tutti le avevano invidia; quando la tristarella cominciò a dar ascolto ad un cervello svolazzatojo che villeggia qui presso, e che capita sovente da queste bande per cacciare alle beccaccie. Egli non ha nulla da fare, onde ogni tratto è qui; s’ella va a messa, c’è; al mercato c’è. E porta la giubba; veste a smanceria, spesucchia, e non ha i calli alle mani, e sa darle pasto di paroline melate, che i nostri campagnuoli non conoscono. Ma quelle dei campagnuoli sono parole sincere come l’acqua: le altre chi sa? Fatto è che alla Gioconda venne a noja il setajuolo, come insipido e rozzotto, cominciò colla freddezza, poi sgarbi, abbondando invece in cortesia col forestiero; e non la sa parlare che di lui, e la s’è fitta in capo, la leggiera che è, di diventargli sposa. In tutto il vicinato fu che dirne; e che essa perde il credito e gli avviamenti e le danno della pazza pel capo: ma ella non bada a nessuno, e s’accora,