Pagina:Novelle lombarde.djvu/33

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Voleva, secondo l’espressione del nostro volgo, indicare in prigione: ma quella parola gabbia ravvivò in don Alfonso l’idea del supplizio dell’avo, gli sonò come un insulto insieme e come una minaccia; la credette senz’altro proferita dal Sirtori.

In quell’impeto, dimentico del dove si trovasse, caccia mano allo stocco; i suoi l’imitano: nè gli avversarj dormono, ma balzati in piedi, avvoltolate al braccio le cappe, sguainati i ferri, rizzate le panche a modo di barricata, di qua e di là si comincia a far sangue: — a far sangue in chiesa! mentre si spiegava il Vangelo! E l’affare diveniva serio di più in più, se il governatore duca d’Albuquerque, ivi presente, non fosse accorso cogli alabardieri a por fine alla sacrilega zuffa, ed intimare a don Alfonso che uscisse dalla chiesa.

Al domani i cacciatori di novità lessero affissa su pei cantoni di Milano una grida nella quale si diceva qualmente insoffribile era divenuta l’irreverentìa d’alchune persone etiam qualificate, che portando l’aboninatione nella casa del Signore, non altrimenti che nelle pubbliche et più licentìose piazze, senza timore delle vendette divine, et quasi anzi avessero a godervi maggiore franchigia, ardivano cicalare, passeggiar in lungo ed in largo, amoreggiare, sollevar clamori et perfino metter mano alle armi. Di questi eccessi disgustata, l’eccellenza del duca governatore, intenta all’onor di Dio, et salue le giurisditioni del foro ecclesiastico, non che le pene prestabilite per la costituzione di N. S. Pio V contro li profanatori delle chiese, ordina e vuole che nessuno da hoggi inante ardisca con parole licenziose, atti inhonesti, contentioni e risse turbare la devozione in tempo dei divini