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novella lxii. 109

ecco il tempo ch’io provvederò la bottega mia di frutte, sicchè i figliuoli miei non andranno più intorno con le ceste perdendo il fiato e il gorgozzule per le contrade a posta di pochi quattrini di fava. Un’altra gittò via da sè le pianelle, e promettendosene un pajo di ricamate, la cominciò a ballare in peduli; e un barcajuolo che quivi era, prese sotto le braccia una certa grassotta che parea nana, e cominciò ad alzarla e abbassarla come si fa del pestello in un mortajo. Per accrescimento della solennità giunse il marito della fruttajuola, il quale avea vinto anch’egli da sè cinque ducati, e fu raddoppiato il furore. Si promisero cene, colezioni, feste, e da quel dì in qua è sbandita la tristezza da quella calle, nè si parla più di altro, che di giocondità e di tesori.

LXII.


Il Pazzo che vuol farla da medico.


Quando uno ha alquanto riputazione di pazzo e dì lunatico, e la cosa si fa pubblica, io non so se perchè il sangue tiri o per altra cagione che si sia, tosto le genti gli corrono dietro come i pettirossi alla civetta. Pare a tutti una bella cosa quel sentire un cervello che in un attimo di tempo va di palo in frasca mille volte, e risponde alla riversa, e comincia ragionamenti che non verrebbero in capo a chicchessia, con un’affluenza di parole che mai non cessano e con un fervore che mostra l’animo di chi parla. Che è, che non è, al pazzo vengono in capo certe cose che bisogna ad un tratto sgombrar di là e metter le ale, chi non vuol andarne via spallato e col capo rotto, o forse rimanere sul campo di battaglia senz’anima in corpo.

Nelle vicinanze di Trevigi è uno di questi cervelli, il quale di tempo in tempo va a lanci e a salti come gli pare e come lo tocca la fantasia; e fra le altre sue qualità ha questa, che secondo l’arte della persona con cui parla, gli pare di es-