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Pagina:Novissima.djvu/73

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La difficoltà a sceglier tra le opere puramente letterarie quali per meriti reali convenga additare al pubblico è minima in confronto a quella di accennare ai drammi e alle commedie di cui il pubblico stesso già diede il più delle volte un giudizio troppo sommario. Abbiamo accennato alla rumorosa caduta della tragedia nova di Gabriele d’Annunzio, Più che l’amore. Subito si discerne quali furon le cagioni di tale sommarissima esecuzione. Alla folla non parve tollerabile la glorificazione del delitto ignobile e inutile commesso dal protagonista il quale nulla opera per chiarire e fare apprezzare la propria tempra ch’egli asserisce eroica, privilegiata; le esplorazioni di Corrado Brando parvero ipotetiche. Chi garantirebbe ch’egli il di dopo non avrebbe rischiato i frutti del latrocinio sul tappeto di un’altra bisca? Quando il protagonista non sa sollevare attorno a sè un’aureola di simpatia la sua partita può dirsi perduta ed a nulla valsero le pagine mirabili di schietta poesia costrette ad ornar la trama incerta della nova tragedia dannunziana. Questa volta l’ingegno grande dell’abruzzese non ha saputo imporre un lieto destino alla favola da lui formata; è mancata all’opera d’arte quell’intima energia che la sostiene e la rende accetta.

Roberto Bracco guida sempre con abilità e con fortuna la sua navicella sul tempestoso mar della scena; gira attorno alle difficoltà quando non le supera ed ogni giorno più acquista la maestria che gli permette di trattar tutti i generi. Quindi nell’atto unico della Notte di neve ha saputo condensare un’azione drammatica di ambiente napoletano con rapidità incalzante così da giunger con tocchi febbrili, incisivi verso la catastrofe. Quindi nei Fantasmi ai quali il pubblico del Sannazzaro decretava un trionfo, Roberto Bracco affronta il dramma psicologico che conquista per l’analisi minuta, penetrante. Raimondo Artunni, scienziato, si sa condannato dalla tisi: e Giulia, la bellissima donna sua, già si sente vinta dall’amore verso un giovine e forte discepolo del marito. Gerolamo Rovetta col Giorno della cresima è tornato alla serie di scene che volgono a lieto fine; ma per quanto egli vi abbia profuso arguzia di buona lega e finezze di dialogo, la commedia non ha ottenuto il largo consenso che solitamente accoglie i lavori rovettiani ed ha accolto, mentre scriviamo Papà Eccellensa con lietissima sorte.

La Carità mondana, già classicamente scolpita in un capolavoro ibseniano, già con trama troppo scheletrica si da lasciare scorger la 39 tesi, discussa dal Brieux nei Benefattori, ha tentato Giannino Antona-Traversi che, con l’usata disinvoltura, ha ricamato su l’argomento una serie di dialoghi vivaci e scintillanti. Un altro giovane veterano, Sabatino Lopez, sembra con la Donna d’altri aver fatto opera d’arte compiuta: il teatro del Lopez è già vario d’argomento numeroso per lavori, va dal primo fortunato dramma psicologico a leggiadre pitture d’ambiente; il commediografo livornese ha sempre concepito la trama dell’azione in modo da destar l’invidia di fortunati colleghi ma spesso gli nocque la frettolosa esecuzione.

Un critico drammatico fiorentino, Umberto Ferrigni, si è arrischiato con fortuna alla ribalta: Le prime armi sono la pittura assai delicata della passione che fiorisce tra un giovine e una donna la cui bellezza tramonta. La sorella minore, di Tommaso Monicelli, ha superato quasi d’un tratto le difficoltà non lievi di una prima prova al teatro. Argomento simile a quello trattato dal Sudermann nello Sturmgeselle Sokrates svolse Augusto Novelli in Vecchi eroi, ponendo a confronto e contrasto in iscene di fattura romantica e non troppo proporzionate come svolgimento l’ideale della generazione cui si deve l’unità della patria e le moderne teorie sovversive.

Enrico Corradini, cui piacque evocare in Maria Salvestri una creatura tutta passione, si è lasciato tentar di nuovo dalle grandi figure e i grandi ambienti storici, provandosi a ritrarre Carlotta Corday, l’eroina di una intera letteratura drammatica; la tragedia recitata dalla Compagnia Stabile Romana incontrò il favore del pubblico napoletano; e questa Compagnia che per la coscienza e l’amore con cui adempie alla sua missione merita ogni elogio, allesti uno spettacolo nobilissimo quale da queste colonne avevamo vagheggiato: vogliamo dire della Orestiade ridotta da Antonio Cippico e da Tito Marrone con fine sentimento d’arte in modo da presentare al pubblico attento e rispettoso un assieme degno per ogni riguardo del geniale tentativo.

Nella nostra scena di prosa si nota quindi un certo risveglio: gli autori si provano a tutti i generi e mostrano anzi il deliberato proposito di lasciar da parte le eterne disquisizioni psicologiche su l’adulterio o le imitazioni troppo palesi del teatro ibseniano o russo,

A questo proposito convien notare due lavori di inspirazione e sceneggiatura tutta italiana, agili e chiari nella struttura di una semplicità