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Pagina:Odi di Pindaro (Romagnoli) I.djvu/166

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ODE OLIMPIA VI 131


Epodo

Né sino all’ultimo eluse ad Àpito il germe divino.
Egli, premendo nel cuore furore indicibile, punto
da cruccio acutissimo, andò a Pito, per chiedere al Nume
consiglio nell’onta insoffribile. — Evadne, deposta la zona
di porpora e d’oro, e la càlpide argentea, sotto una macchia
cerulea, die’ a luce un fanciullo di mente divina — ad assisterla,
il Dio chioma d’oro le Moire e Ilizia benigna inviò.


III


Strofe

Dal grembo doglioso d’amore d’un subito Víamo a luce
appare. La madre dogliosa
a terra lo lascia. Ma, grazie a’ Celesti,
due draghi di glauca pupilla gli stettero a guardia, gli diedero
ristoro col succo dell’api purissimo. — E quando il monarca
da Pito rupestre alla reggia sul cocchio tornò, chiese a tutti
del pargolo nato ad Evadne. Dicea ch’era germe d’Apollo;


Antistrofe

dicea che sarebbe fra gli uomini famoso su tutti i profeti;
né mai la sua stirpe morrebbe.
Diceva cosí: rispondevano quelli:
né udito né visto l’avevano; e cinque eran giorni trascorsi. —
Ché il pargolo ascoso giaceva fra giunchi, fra impervî cespugli,
infuso le tenere membra dai raggi che porpora e gialli
piovean le viole. Onde a lui provenne il suo nome immortale.