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262 LE ODI DI PINDARO


ne l’ultime doglie furente vi giunse,
quattro colonne diritte
dalle radici terrestri
sopra adamàntini plinti,
si scagliarono, e sui capitelli
la roccia sostennero. E quivi,
sgravata, mirò la beata sua prole.

Qui come nella nascita di Rodi, la fantasia del poeta è dominata dall’immagine della pianta che cresce. I pilastri di Delo sorgono dalle radici terrestri, son dunque gambi, e Delo la infiorescenza. Rodi sboccia a sommo del pelago. È dunque un fiore. E Rodi vuol dire la rosa. Questa immagine si libra ancora alla fantasia. Dice infatti che i vertici delle sue parole, caduti nella verità, ebbero compimento. I vertici delle parole sono dunque il sommo della pianta, il fiore col ricettacolo ed il seme. La verità è il terriccio. È utile osservare, perché caratteristico della poesia pindarica, questo permanere della immagine nella fantasia, come permane, nella retina, anche quando è scomparso, l’oggetto che la impressionava.

Parallelo a questo, o meglio, ampliata forma di questo, è l’altro mito, anche ricordato da Pindaro, che fa Rodi figlia d’Afrodite e del Sole. Afrodite è simbolo del mare. E l’isola, emersa dal mare, fu poi dal Sole resa feconda di biade e di greggi. La serenità del cielo di Rodi era famosa fra gli antichi. Un proverbio greco diceva che il sole ci brillava tutti i giorni. Il mito, in origine fisico, fu poi umanizzato. Il Sole era un Dèmone. Rodi una ninfa. E il Sole l’aveva non solo generata dal mare, ma fecondata. Del resto, qui come altrove, Pindaro, dicendo Rodi, intende insieme l’isola e la Ninfa eponima, indissolubilmente congiunte dal mito.