Pagina:Odi di Pindaro (Romagnoli) II.djvu/166

Da Wikisource.



In questa ode, fioriture, sovente superflue, sviano continuamente il lettore. Giova pertanto, qui piú che altrove, aver presente sempre la nuda successione dei pensieri.

Invocazione ad Ilizia, la Dea che assiste i forti, per la quale, e solo per essa, godiamo le meraviglie e le dolcezze della vita (1-5).

Ha vinto Sògene. E chi vince, riscuote onore dagli intendenti: però, se non trova un poeta che lo canti, cadrà nell’oblio. E come un marinaio esperto prevede il vento tre giorni prima, cosí Pindaro prevede che Sògene darà molto da fare ai poeti (6-20).

Tutti cadono nell’oblio di morte. Solo i canti mantengono la memoria — talora oltre il merito, come avvenne con Ulisse. L’arte fa spesso parer vera la finzione (cfr. O. I. Epodo I), né gli uomini sanno discernere il vero dal falso. Se avessero saputo, mai Aiace non si sarebbe data la morte (20-34).

Tutti devono morire. Ma sopravvive agli uomini l’onore largito dai Numi: ond’è che tuttora Pindaro può rievocar Neottolemo. Questi fu educato a Sciro, presso il re Licomede. Ma Ulisse lo andò a toglier da quella corte perché era fatale che senza lui non si potesse espugnare Troia. E Neottolemo andò, distrusse la città, né tornò mai piú al luogo dove aveva trascorsa l’infanzia. Errò per terra e mare, giunse ad Efira, e tenne breve tempo lo scettro dei Molossi, che poi restò