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un naturalismo esteriore. Quindi fu chiamato l’Hogart olandese, il filosofo gioviale, il più profondo osservatore d i costumi del suo paese, e fra i suoi ammiratori, ve ne fu uno, il quale disse che se lo Steen fosse nato a Roma invece che a Leida e avesse avuto a maestro Michelangelo invece di Van Goyen, sarebbe riuscito uno dei più grandi pittori del mondo; e un altro che trovò non so che analogia fra lui e Raffaello. Meno generale è l’ammirazione per le qualità tecniche della sua pittura, nella quale non si trova la finezza e il vigore di altri artisti, come dell’Ostade, del Mieris, del Dow. Ma anche considerando l’indole satirica dell’opera sua, si può dire che lo Steen s’è spinto sovente di là dal suo scopo, se veramente ebbe uno scopo. La sua foga burlesca ha spesse volte soverchiato in lui il sentimento della realtà: le sue figure invece di riuscir soltanto ridicole, riuscirono mostruose, appena umane, somiglianti spesso più a bestie che ad uomini; ed egli moltiplicò queste figure a segno da destare qualche volta, invece del riso, la nausea, e un sentimento quasi di sdegno per la natura umana oltraggiata. Il più delle volte, però, l’effetto più forte è il riso, un riso sonoro, irresistibile, che ci scappa anche essendo soli, e che richiama la gente dai quadri vicini. È impossibile spingere a un più alto grado di potenza l’arte di schiacciar i nasi, di storcer le bocche, di contrarre i colli, di reticolare le rughe, d’istupidire i visi, d’attaccare gobbe e pappagorgie, di far sghignazzare, ruttare, barcollare, stramazzare,