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AMSTERDAM. 305

È un labirinto di strade strette, fangose e cupe, fiancheggiate da case vecchissime, che pare debbano cadere in rovina a dare un calcio nel muro. Dalle corde tese fra finestra e finestra, dai davanzali, dai chiodi piantati nelle porte, spenzolano e svolazzano sui muri umidi camicie sbrandellate, gonnelle rappezzate, vestiti unti, lenzuoli macchiati, calzoni cenciosi. Davanti alle porte e sugli scalini rotti, in mezzo alle cancellate cadenti, sono esposte le vecchie mercanzie. Rottami di mobili, frammenti d’armi, oggetti di divozione, brandelli d’uniformi, avanzi di strumenti, frantumi di giocattoli, ferramenti, cocci, frangie, cenci, tutte le cose che non han più nome in alcuna lingua umana, tutto quello che hanno guasto e disperso la ruggine, il tarlo, il foco, la rovina, il disordine, la dissipazione, le malattie, la miseria, la morte; tutto quello che i servitori spazzano, che i rigattieri ributtano, che i mendicanti calpestano, che gli animali trascurano; tutto ciò che ingombra, che insudicia, che puzza, che stomaca, che contamina; tutto si ritrova là a mucchi e a strati, destinato a un commercio misterioso, ad accoppiamenti impreveduti, a trasformazioni incredibili. In mezzo a quel cimitero di cose, a quella babilonia d’immondizie, brulica un popolo macilento, pezzente, pidocchioso, accanto al quale i gitani dell’Albaicin di Granata son gente pulita e profumata. Come in tutti i paesi, così anche là hanno preso ad imprestito dal popolo presso cui vivono, il colore del pelo e del viso; ma hanno conservato i nasi adunchi, i menti aguzzi,