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ALKMAAR. 371

natore, la quale trovata e letta da Federico, figliuolo del duca d’Alba, lo induce a levar l’assedio per non morire annegato. Vedevo una frotta di scolari divertirsi a guardar la campagna coperta di neve a traverso le scheggie di ghiaccio applicate al tubo dei calamai, e il buon Mezio intromettersi fra loro, e cavare dal loro gioco la prima idea del canocchiale. Incontravo allo svolto d’una strada il pittore Schoruel, col capo ancora segnato dalle bastonate e dai pugni toccati in rissa nelle taverne d’Utrecht, dove andava a pigliar le cotte con quella buona lana di Giovanni di Mauberge, suo maestro di pittura e di scapestrataggine. E infine m’immaginavo le belle alkmaaresi, che colla loro aria modesta e innocente, ebbero la virtù di sollevare Napoleone il Grande dalla noia di Amsterdam e dal dispetto di Broek. Intanto il piroscafo arrivava ad Alkmaar dove un facchino che sapeva tre sole parole francesi: — Monsieur, hôtel e pourboir, mi toglieva di mano la valigia e mi rimorchiava a un albergo.


A chi abbia visto le altre città dell’Olanda, Alkmaar non offre gran che di straordinario. È una città di forma regolare, con grandi canali e grandi strade, e le solite case rosse colla solita facciata triangolare. Alcune grandi piazze sono interamente lastricate di piccoli mattoni rossicci e gialli, disposti in disegni simmetrici, che da lontano paiono un tappeto; e le strade hanno due marciapiedi, uno di mattoni, per chi passa, e uno un po’ più alto, di