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236 ODISSEA

ond’io rempiute avevo ad essi le orecchie, i compagni
200via si tolsero, e me disciolsero pur dai legami.
Ma come l’isola avemmo lasciata, ecco, súbito dopo,
vidi un gran fumo, ed i flutti gonfiarsi; e un fragor mi percosse.
Caddero i remi giú dalle mani ai compagni sgomenti,
rumoreggiando, sbattendo su l’onde; e la nave rimase
205ferma, ché ai remi aguzzi le braccia non davano impulso,
lo, su, giú pel naviglio movendo, incitavo i compagni,
dolci parole dicendo, fermandomi presso a ciascuno:
«O miei diletti amici, non siam dei perigli inesperti:
questo, piú grande non è davvero, di quando il Ciclope
210ci tratteneva a forza prigioni nel cavo suo speco.
Pure, pel mio valore, la mia prudenza, i consigli,
anche di lí fuggimmo: ricordo che un dí sarà grato.
Ora, su via, tutti quanti facciamo cosí come io dico:
voi, fermi ai vostri banchi, del ponto i profondi marosi
215coi remi percotete, se voglia concedere Giove
che questo abisso evitare si possa, sfuggire alla morte;
o timoniere, e a te dò quest’ordine, e tu nella mente
figgilo bene, giacché della nave tu reggi il timone;
lungi da questo fumo, da questo vortice il legno
220tieni, e dirigilo verso lo scoglio, che mai non dovesse
poggiar dall’altro lato, piombarci nell’ultimo danno».
     Tanto io diceva; e i miei consigli seguirono quelli;
ma non parlai di Scilla, dell’inevitabil flagello,
ché per timore i compagni cader non lasciassero i remi,
225per rannicchiarsi nel fondo del legno. Ed allora, il consiglio
scordai, troppo increscioso, di Circe, che imposto m’aveva
ch’io non prendessi l’armi; bensí l’armi belle mi cinsi,
strinsi nel pugno due lunghe zagaglie, e mi posi sul ponte.