Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/114

Da Wikisource.

CANTO XVIII 111

110come lo videro, a ridere, a dirgli parole di lode:
«Ospite, possa Giove concederti e gli altri Celesti
tutto ciò che tu brami, che grato riesce al tuo cuore,
che ci hai levato d’attorno quest’otre sfondato, che il tozzo
iva cercando per Itaca! E presto vogliamo spedirlo
115per mare a Echèto re, flagello del genere umano».
     Tanto dicevano. E Ulisse fu lieto di questo saluto.
Dinanzi un gran ventriglio di pecora Antìnoo gli pose,
d’adipe colmo e di sangue. E Anfínomo, tolti due pani
dalla canestra, li pose vicino al ventriglio; e levando
120alta la coppa d’oro, parole d’augurio gli volse:
     «Ospite padre, salute! Nei giorni venturi t’arrida
felicità: chè per ora, ti vedo fra un mondo di mali!»
     E gli rispose cosí l’accorto pensiero d’Ulisse:
«Proprio mi sembri, Anfínomo, pieno di senno: figliuolo
125degno del babbo tuo, che tanto ne intesi dir bene:
Nisi di Dúlico, tanto dicevano, buono e opulento.
Tu sei suo figlio, dicono, e un uomo dabbene mi sembri.
E ti dirò per questo, se vuoi darmi ascolto e capirmi:
sopra la terra non v’ha creatura piú grama dell’uomo,
130fra quante van rependo sovr’essa, traendo il respiro.
Sin che i Celesti gli dànno fortuna, e si regge sui piedi,
pensa che mai non gli debba toccar nel futuro un malanno:
se poi qualche sciagura gli mandano i Numi beati,
a malincuore s’adatta, mal tollera l’animo i pesi.
135Tale è l’umor delle genti che vivono sopra la terra,
sin che li tiene in vita degli uomini il padre e dei Numi.
Vivere anch’io fra la gente felice potevo, ed usai
la prepotenza, il sopruso, commisi molti atti malvagi,
nel padre mio, nei miei fratelli fidando. Per questo