Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/132

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CANTO XIX 129

110che sovra molte genti magnanime tenda lo scettro,
e la giustizia onori. La terra feconda gli cresce
orzo e frumento, gravati son gli alberi tutti di pomi,
figliano senza mai sosta le greggi, offre il pelago i pesci:
tanto il suo buon governo gli frutta; e la gente è felice.
115Perciò sotto il tuo tetto rivolgimi ogni altra dimanda;
ma non mi chiedere, no, la mia stirpe, la terra materna,
se tanto piú non vuoi gravare il cuor mio di cordoglio,
pure al ricordo; ché molto sono io sventurato; e sconviene
starsene in casa d’altri levando lamenti e piatendo.
120Nulla di peggio v’è che un pianto perenne; ed io temo
che delle ancelle alcuna si crucci, o tu stessa non dica
che in lagrime io mi struggo perché sono pieno di vino».
     E a lui queste parole rispose Penelope scaltra:
«O forestiere, le mie virtú, le sembianze, le forme
125distrutte han gl’Immortali quel dí che salparon per Ilio
gli uomini d’Argo, e partí con essi anche Ulisse mio sposo.
S’egli tornasse qui, se curare di me si potesse,
allora sí, piú grande, piú bella sarebbe mia fama.
Ora il dolor m’opprime, pei mali scagliati dai Numi;
130perché quanti signori governan queste isole in giro,
Same, Dulichio, Zacinto coperta di selve, e gli stessi
principi ch’ànno dimora su l’ardue d’Itaca balze,
contro mia voglia, sposa m’ambiscono, e struggon la casa.
Dare perciò non mi posso di supplici e d’ospiti cura,
135né degli araldi che recan da popolo a popol messaggi;
ma nella brama d’Ulisse vo’ sempre struggendo il mio cuore.
Le nozze affrettan quelli, malizie vo’ io dipanando.
Prima nel cuore un Nume l’idea m’ispirò che innalzassi
nelle mie stanze un grande telaio, e tessessi una tela