Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/160

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CANTO XX 157

230Sappiano Giove, ch’è primo fra i Numi, e la mensa ospitale,
e il focolare, a cui son giunto, del nobile Ulisse,
che Ulisse giungerà mentre ancor qui sarai: di sicuro
potrai con gli occhi tuoi vederlo, se pur tu n’hai brama,
che i Proci ammazzerà, che adoprano qui da padroni».
     235E il mandriano dei bovi con queste parole rispose:
«Deh, straniero, le tue parole compiesse il Croníde!
Bene vedresti allora qual sia la mia forza, il mio braccio!».
     E allora anch’egli Eumèo rivolse la prece ai Celesti
tutti, che il saggio Ulisse tornare potesse alla reggia.
240Cosí dunque costoro parole volgevano; e i Proci
apparecchiando andavan frattanto la sorte fatale
contro Telemaco. Ed ecco spuntare a sinistra un augello
alto volante, un’aquila; ed una colomba ghermire
trepida; e Anfínomo allora parlò, disse queste parole
245«Amici, a buon evento non può riuscir questa trama:
Telemaco non morrà. Ma ora si pensi al banchetto».
     Questo Anfínomo disse; né ad essi dispiacque il consiglio.
Mossero; ed alla casa venuti d’Ulisse divino,
deposero i mantelli sovressi i sedili ed i troni.
250Quindi le grosse capre sgozzaron, le pecore pingui,
i ben pasciuti porci, con una giovenca di mandria.
Poscia, arrostite l’entragne, si fecer le parti, ed il vino
fu nei crateri infuso. Recava le tazze il porcaro,
distribuiva i cibi Filezio, capoccia di genti,
255entro canestri belli, mesceva il capraio Melanzio.
E sopra i cibi pronti gettarono tutti le mani.
     E in sé volgendo accorti pensieri, Telemaco fece
sedere Ulisse sopra la salda marmorëa soglia,
e presso un rozzo scanno gli pose ed un piccolo desco,