Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/162

Da Wikisource.

CANTO XX 159

290desiderava la sposa d’Ulisse, da tanto lontano.
Dunque, prese costui fra i Proci arroganti a parlare:
«Porgete ascolto a quello ch’io dico, magnanimi Proci.
L’ospite avuta ha già, come pur conveniva, una parte
pari alla nostra: ché bello davvero non è, non è giusto
295che quando un ospite giunge, Telemaco debba mancargli.
Ma bramo adesso offrirgli anche io qualche dono ospitale,
ch’egli a sua volta lo doni a chi l’accudisce nel bagno,
o a quale altro gli piaccia dei servi d’Ulisse divino».
     Cosí disse. Ed un piede di bove pigliò da un canestro,
300e lo scagliò con mano sicura. Ma Ulisse, chinando
agilemente la testa, pervenne a schivarlo. E nel cuore
amaramente sorrise. Percossa ne fu la parete.
Ed a Ctesippo questa rampogna Telemaco volse:
«Meglio per te che cosí sia finita la cosa, Ctesippo:
305fallito hai lo straniero, che seppe schivare il tuo colpo:
se no, certo trafitto t’avrei con l’acuta mia lancia,
e tuo padre t’avrebbe dovuto apprestare la fossa,
invece che le nozze. Pertanto, nessuno in mia casa
commetta villania: ché tutto ora vedo e comprendo
310il buono ed il cattivo. Sinora, troppo ero fanciullo.
Vedere e sopportare m’è forza la vostra arroganza,
che mi sgozzate le greggi, che il vino ed il pan divorate:
ché per un solo è cosa difficile a molti por freno.
Ma non oprate piú da nemici, non fate piú danni.
315Ché se bramate oramai ch’io muoia trafitto dal bronzo,
anche io questo vorrei: perché molto meglio sarebbe
morir, che tuttodí assistere a queste sozzure,
gli ospiti miei trattati con male parole, le ancelle
vïolentate senza pudor nella casa mia bella».