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174 ODISSEA

260sí che ad Apollo offerte, signore dell’arco, le cosce,
tendiam di nuovo l’arco, portiamo la gara ad effetto».
     Disse Antínoo cosí, né spiacquero agli altri i suoi detti.
Gli araldi allora ad essi recarono l’acqua alle mani.
Sino all’orlo i valletti licore mescêr nelle brocche,
265ed attingendo qui, colmarono a tutti le coppe.
Ora, poi ch’ebber libato, bevuto ciascuno a sua posta,
cosí lo scaltro Ulisse parlò, meditando l’inganno:
«Datemi ascolto, voi che ambite l’illustre regina:
prima ad Eurimaco volgo la prece e ad Antinoo divino,
270perché questo consiglio che diedero è certo opportuno.
Ora si lasci l’arco, si volga la mente ai Celesti;
domani all’alba, il Nume darà la vittoria a chi brama.
Ma l’arco levigato date ora a me, ch’io tra voi
delle mie mani provi la forza, se ancora il vigore
275mi resta, quale un giorno l’avevo nelle agili membra,
oppur se l’han distrutto l’inerzia e l’errare mio lungo».
     Cosí diceva Ulisse. Ma grande fu l’ira di tutti,
per il timor che l’arco lucente egli a tender valesse.
E Antinoo lo colpí con queste parole d’ingiuria:
280«Straniero sciagurato, ben poco ti regge la mente.
Oh non ti basta che qui fra noi altri signori banchetti
in pace, e niun dei cibi ti viene conteso, ed ascolti
tutti i discorsi, tutte le nostre parole? Nessuno
dei forestieri mai, dei pitocchi ode i nostri discorsi.
285Il vin dolce di miele t’offese, che suol danneggiare
sempre chi troppo ingordo, chi senza misura ne beve.
Il vino danneggiò pur esso il Centauro, il famoso
Eurizïone, quando egli venia fra i Lapiti, nei tetti
di Piritòo cuore ardito. Poi ch’egli fu vinto dal vino,