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CANTO XXII 195

     350«Férmati, non vibrare la spada su questo innocente:
e si risparmi pure l’araldo Medonte, che in casa
sempre si prese cura di me, sinché fui fanciullo:
se pur non l’hanno ucciso Filezio o il guardiano dei porci,
o, mentre tu furïavi, non ti s’è parato dinanzi».
     355Medonte, testa fina, l’udí, che, a schivare la morte,
interrorito stava sotto uno dei seggi, e la pelle
s’era tirato addosso d’un bove scoiato di fresco.
Disotto al seggio tosto balzò, gittò via la cotenna,
verso Telemaco corse veloce, gli strinse i ginocchi,
360lo scongiurò, gli volse cosí le veloci parole:
     «Eccomi, caro, son qui. Tu salvami, parla a tuo padre,
ché la sua forza non debba provare su me, non m’uccida
col ferro aguzzo, mentre lo infiamma furor contro i Proci
che gli struggevano i beni, né te rispettavano, i ciechi!»
     365E sorridendo gli disse l’accorto pensiero d’Ulisse:
«Sta di buon animo, adesso costui ti protegge e ti salva,
perché tu stesso vegga, perché possa dirlo anche ad altri,
quanto oprar bene val meglio che d’opere inique macchiarsi.
Ma su via, dunque, tu col canoro poeta, sgombrate
370via da questo carnaio, sedetevi fuor nella corte,
mentre che io nella casa farò ciò che fare m’è d’uopo».
     Cosí parlava; e quei due s’avviarono fuor della stanza;
e si sedevano dunque vicino all’altare di Giove,
guatando tutto intorno, che sempre temevan la morte.
     375Ulisse intanto gli occhi volgeva per tutta la stanza,
se non vi fosse nascosto, pur vivo, qualcuno dei Proci;
ma tutti quanti a mucchi distesi fra polvere e sangue,
li vide, come pesci che dentro a una gola ricurva,
i pescatori dal mare spumante fuor trassero a riva