Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/214

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CANTO XXIII 211

230né dal suo collo piú staccava le candide braccia.
E ancor li avrebbe in pianto trovati l’Aurora di rose,
se non formava un altro disegno la Diva occhiazzurra.
Trattenne all’ultimo orlo la notte, e la rese piú lunga,
e nell’Oceano Aurora frenò, né lasciò che i cavalli
235agili piedi aggiogasse, che recan la luce ai mortali.
Lampo e Fetonte, svelti puledri che recano Aurora.
E Ulisse allora queste parole rivolse alla sposa:
«Donna, di tutte le prove non siamo ancor giunti alla fine,
anzi, un travaglio ci resta da compier, difficile, grave
240senza misura; ed io conviene che tutto lo affronti;
perché tanto predetto m’ha l’alma del vecchio Tiresia
quel giorno ch’io disceso son giú nella casa d’Averno,
per procacciare ai miei compagni il ritorno, e a me stesso.
Ma ora vieni, sposa, moviamo al giaciglio, ché infine
245possa trovar conforto nel dolce sopore del sonno».
     E a lui queste parole rispose Penelope scaltra:
«Il letto pronto sempre per te sarà, quando lo brami,
ora che t’hanno i Numi d’Olimpo concesso il ritorno
alla tua casa bene costrutta, alla terra materna.
250Ma perché tu ben sai, perché te l’ha detto un Celeste,
dimmi, su via, di questi travagli: ché in séguito, credo,
io li dovrò sapere; né male è ch’io sappia fin d’ora».
E a lei cosí rispose l’accorto pensiero d’Ulisse:
«O disgraziata, perché tu insisti, perché vuoi saperlo?
255Ebbene, parlerò, ché nulla io ti voglio celare;
ma lieto il cuore tuo non ne andrà, né pure io ne fui lieto.
Egli per molte e molte città di mortali mi disse
che andar dovrei, con me recando un manevole remo,
sinché giungessi a genti che il pelago mai non han visto.