Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/216

Da Wikisource.

CANTO XXIII 213

     290Ora, poi ch’ebbero i due godute le gioie d’amore,
si giocondâr parlando, scambiando parole. Narrava
la diva donna quanto sofferto ella avea nella reggia,
la voratrice turba vedendo dei suoi pretendenti,
che per sua causa molti giovenchi sgozzavano e pingui
295pecore, e molto vino spillare solevan dai dogli.
Ed a sua volta Ulisse divino le doglie che inflitte
aveva altrui, le doglie che aveva egli stesso sofferto
tutte narrava; ed ella godeva ascoltandole; e il sonno
non le discese sugli occhi, se tutto non ebbe narrato.
300E disse ei come vinse dapprima i Cicòni; ed ai campi
fertili giunse poi dei Lotòfagi; e quanto il Ciclope
fece, e com’egli trasse vendetta dei prodi compagni
che il mostro aveva senza pietà divorati. E poi, come
ad Eolo giunse; e questi gli fe’ cordïali accoglienze,
305e poi lo rimandò; ma ancora non era destino
ch’ei ritornasse alla patria. Di nuovo il rapí la procella,
lo trascinò, ch’alti lagni levava, sul mare pescoso;
e come poi dei Lestrígoni al suolo, a Telépilo giunse,
che gli distrusser le navi con tutti i compagni guerrieri.
310Poscia narrò dell’inganno, dei molti laccioli di Circe;
e come scese poi nella squallida casa d’Averno,
per consultar lo spirto del vate di Tebe Tiresia,
con la sua nave; e tutti li vide i compagni, e la mamma
che partorito lo aveva, nutrito mentre era piccino.
315E poi, delle Sirene come udí la voce canora,
come alle pietre giunse vaganti e all’orrenda Cariddi,
e a Scilla, onde sfuggito niun uomo era mai senza danno.
E poi, come i compagni sgozzarono i bovi del Sole,
e la sua nave colpí col fumido folgore Giove