Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/60

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CANTO XV 57

470Quelli ci fecero ascendere, asceser la nave essi stessi,
corsero l’umido gorgo: ché Giove spirava la brezza.
L’umido gorgo cosí nove di nove notti varcammo,
ma quando Giove poi fe’ sorgere il decimo giorno,
Artèmide colpí, lanciando una freccia, la donna.
475Come una folaga giú nella stiva piombò con un tonfo.
Dal bordo fu gittata in preda alle foche ed ai pesci;
ed io solo fra loro restai, con l’affanno nel cuore.
Poi ci sospinsero ad Itaca i flutti ed il soffio dei venti.
E qui mi comperò, spendendo del proprio, Laerte.
480Ecco dunque in che modo son giunto a veder questa terra».
   E gli rispose Ulisse divino con queste parole:
«Eumèo, davvero tu nel seno il mio cuore hai commosso,
punto per punto quello narrando che avesti a soffrire.
Pure, vicino al male per te pose Giove anche il bene,
485che, dopo tanti travagli, giungesti alla casa d’un uomo
benigno, che si cura di te, che di cibo e bevande
copia ti dà: sí che in agio trascorri la vita. Ed anch’io,
prima di giungere, ho errato per molte città, molte genti».
     Cosí l’uno con l’altro andavan mutando parole,
490cosí li colse il sonno; né il sonno fu lungo, ma breve:
ché presto l’alba fu. Di Telemaco intanto i compagni
sciolser le vele, abbassarono l’albero, ch’erano al lido,
e, scesi dalla nave sovressa la spiaggia del mare,
apparecchiarono il pasto, mescerono il fulgido vino.
495E poi ch’ebber placata la brama del cibo e del vino,
queste parole ad essi rivolse Telemaco scaltro:
«Voi verso la città spingete ora il negro naviglio:
io verso la campagna mi reco a vedere i pastori.
Visti i poderi, in città tornerò verso sera; e dimani