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114 INNI OMERICI 222-248

che io più non speravo, che m’è dilettissimo, alleva.
Se tu l’alleverai, quand’ei sarà pubere fatto,
invidiarti dovrà qual sia delle donne mortali
che te miri: tal copia ne avrai di magnifici doni».
     Demètra a lei cosí rispose, l’amica dei serti:
«Donna, anche a te, salute, ti diano i Numi ogni bene.
Questo bambino, come tu vuoi, volentieri l’accetto
per allevarlo; e nutro speranza che mai né fattura,
per negligenza dell’aia potrà danneggiarlo, né filtro:
poi che un antídoto io so possente dell’erbe maligne,
un amuleto so che tiene lontani gl’incanti».
E, cosí detto, il bimbo serrò con le mani immortali
all’odoroso seno: il cuor della madre fu lieto.
Cosí, dunque, il fulgente figliuolo del savio Celèo,
Demofoónte, a cui Metaníra la bella die’ vita,
Demètra crebbe sí, che un Nume sembrava all’aspetto.
Ché pane mai né latte cibava...

Mancano due emistichi.


                                                  E sempre la Diva
l’ungea d’ambrosia, come pur fosse figliuolo d’un Nume,
col dolce alito suo lo cresceva, stringendolo al seno.
La notte, occulto poi lo tenea fra le vampe del fuoco,
come uno stizzo, di furto dai suoi genitori; e stupore
era per essi vederlo fiorire, che un Nume sembrava.
E da vecchiaia l’avrebbe schermito la Diva, e da morte,
se, stoltamente, una notte, lasciato il suo talamo aulente,
la bella Metaníra venuta non fosse a spiare.
Un grido alto levò, si percosse sui femori entrambi,