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116 INNI OMERICI 279-307

bionda la chioma fluì della Dea sopra gli òmeri, e piena
tutta la casa fu d’un bagliore che folgore parve.
E uscí fuor dalla stanza. Mancarono allor le ginocchia
a Metaníra, a tal vista, restò lungo tempo in silenzio,
né le sovvenne più di levare dal suolo il bambino.
Ma le sorelle udiron del pargolo i flebili gridi,
dai morbidi giacigli balzarono, accorsero; e questa
il pargolo raccolse dal suolo, al suo petto lo strinse:
ravvivò l’altra il fuoco: la terza, con rapidi passi,
mosse traverso la stanza fragrante, sostenne la madre.
E, attorno al bimbo accolte, lo lavan, lo cingon di fasce,
mille moíne gli fanno: però non si placa il bambino:
perché queste nutrici, quest’aie, son troppo da meno.
Trepide di terrore, rivolsero a Dèmetra preci
cosí, tutta la notte. E appena fu sorta l’aurora,
tutto a Celèo possente narraron quanto era seguito,
e quale era la brama di Dèmetra amica dei serti.
Ed ei, tutto a consesso chiamato il suo popolo ricco,
disse che un tempio opulento levassero a Dèmetra, Dea
fulgidachioma, e un’ara sovresso lo sprone del colle.
Udite le parole del re, l’ubbidirono tutti;
e fu fondato il tempio, fiorí per voler della Diva.
E quando il tempio fu compiuto, e cessato il lavoro,
fecero tutti a casa ritorno. E, nel tempio seduta,
Dèmetra bionda, lontana da tutti i Beati Celesti
stette, poiché desio la struggea della figlia perduta.

E un morbo suscitò funestissimo sopra la terra,
il più crudo fra quanti ne fossero mai: da le zolle
non uscían germi più: li teneva nascosti la Dea.