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POESIE MINORI 191


disprezzo di «ben pensante». L’ironia del Tempo giustiziere, volle che il nome dato per ischerno divenisse sinonimo di quanto è più grande ed augusto.

Cosí Melesígene partí anche da Cuma, sfogando il suo dolore nei seguenti versi:

Di qual destino Giove fe’ ch’io divenissi la preda,
quando me, pargolo ancora, nutrì sopra il grembo alla madre
— nobile madre, che un dí, per volere di Giove, di torri
cinsero i Fríconi, genti fortissime, avvezze a domare
folli puledri, maestri di guerre ch’àn furie di fuoco —
nutrì sul grembo a Smirne marina, battuta dall’onde,
attraversata dall’acque fulgenti del sacro Melèto.
Di qui le figlie belle di Giove movendo, le Muse,
vollero la città celebrare e la terra divina;
ma, per follia, la sacra parola, la fama del canto,
quelli respinsero. E alcuno di loro, per prova, lo scorno
dirà che a loro inflisse la sorte ch’io devo patire.
Ed io, la sorte mia, che il Dio m’assegnò quand’io nacqui,
sopporterò, patirò con animo saldo il rifiuto.
Le membra mie, non hanno vaghezza di più rimanere
per le vie sacre di Cuma, mi spinge il magnanimo cuore
ch’io presso un’altra gente, sebbene sia cieco, mi rechi.

A questi versi, aggiunse, stando all’autore, la imprecazione che i Cumei non potessero mai avere un poeta che nobilitasse la loro città. Imprecazione che certo ci spiace sulle labbra di Omero; ma che a paragone delle dantesche, può anche sembrare un complimento.