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184 | poesie |
XXIII
DEL SIGNOR GABBRIELLO CHIABRERA
ALLA SIGNORA ISABELLA ANDREINI.
Nel giorno, che sublime in bassi manti
Isabella imitava alto furore;
E stolta con angelici sembianti
4Ebbe del senno altrui gloria maggiore;
Allor saggia tra’l suon, saggia tra i canti
Non mosse piè, che non scorgesse amore,
Ne voce aprì, che non creasse amanti,
8Ne riso fe’, che non beasse un core.
Chi fu quel giorno a rimirar felice
Di tutt’altro quaggiù cesse il desio,
11Che sua vita per sempre ebbe serena.
Oh di scena dolcissima sirena!
Oh di teatri italici Fenice!
14Oh tra’ coturni insuperabil Clio!
XXIV
RISPOSTA.
La tua gran Musa or che non può? quand’ella
Me stolta fa dell’altrui senno altera
Vittrice; ond’è, ch’ogni più dotta schiera
4Furor insano alto saver appella.
Queste mie spoglie, il canto, la favella,
Il riso, e ’l moto spiran grazie, e vera
Fatta (pur sua mercè) d’amor guerriera
8Avvento mille a i cor faci e quadrella.
Ma s’ella tanto con lo stile adorno
Ha forza; in me col suo valor accenda
11Foco, onde gloria ne sfavilli intorno.
Per lei mio carme e nobil fama ascenda,
Chiabrera illustre, ed avverrà, che un giorno
14Degno cambio di rime anch’io ti renda.
EGLOGHE
I
ERGASTO.
Era il Sol vêr l’Occaso, alla stagione,
Che s’infiorano i prati, ed io pensoso
3Moveva lento il piè lungo il Mugnone:
Pochi passi mutai, che dove ombroso
In alto si sollieva un bel cipresso,
6Vidi Ergasto seder sul prato erboso.
Crespa fronte, irto crin, ciglio dimesso,
Nulla avea di letizia, in mezzo a’ fiori
9Giacea la lira, ed ivi l’arco appresso;
Poichè dietro al pensier de’ suoi dolori
Per lungo spazio andò da sè lontano,
12Trasse dal mesto petto un sospir fuori:
Indi la lira sollevò dal piano
Con la sinistra, e già disposto al canto
15Recossi l’arco nella destra mano;
Ove le corde ebbe tentate alquanto;
Ricercando su lor tuono di guai
18Fece sì fatte udir note di pianto:
Veggonsi sull’April rancj gli erbai,
Da che ti ci furò nostra sventura,
21Nè qui più, Tirsi, odorano i rosai.
Sempre sta su quest’aria un’uggia oscura,
Ben dovuta compagna a’ nostri duoli,
24Onde più messe omai non si matura.
Posano in secco tronco i loro voli,
E dolenti cominciano i Fringuelli,
27E rispondono mesti i Rusignuoli.
E con lungo bebù capre ed agnelli
Schifano i rivi, e le più molli erbette,
30Ne mugghiano, ma piangono i vitelli.
Le tessute ghirlande a lor dilette
Odian le Ninfe, e da’ fioriti prati
33Per gli erti monti se ne van solette:
Cessano tra’ Pastori i balli usati,
Ne possono fra noi cetere udirsi,
36Ed a sampogne non si dan più fiati:
Ben è di dura quercia il petto, o Tirsi,
Che può non iterar gravi lamenti,
39Senza per la tua morte intenerirsi.
Io certamente il suon de’ miei tormenti
Sempre farò sentir quinci d’intorno
42Stancando l’aria con dogliosi accenti:
Qui tacque Ergasto, e venne meno il giorno.
II
Lico ed Elpin: Elpin in Val di Grieve
Bel sonator d’ogni sampogna, e Lico
3Gran Maestro di cetra in Val di Sieve,
Tirsi piangean solto un castagno antico:
Giunse primiero Elpin dolce canzone
6Alle sue canne, ed onorò l’amico,
Sulla riva dell’Arno e del Mugnone
Di peregrina mirra e d’altri odori,
9Tirsi, ricchi pastor fanti corone.
E pur in sull’Ombron ricchi aratori
Innalzano sepolcri ad onorarti,
12E lungo l’Arbia i guardian de’ tori.
Ma su per l’Alpi in solitarie parti,
Ove poveramente io viver soglio,
15O Tirsi, per onor, che posso darti?
Con un poco di zufolo mi doglio,
Che altro non si concede a’ miei desiri,
18E di qui mi si cresce anco il cordoglio.
Qui tolse alla sampogna i suoi sospiri
Elpino, e trasse la querela a fine,
21Poi Lico diè principio a’ suoi martíri.
Qual al tempo de’ ghiacci e delle brine
Consolato si pascola l’armento
24Per lo tiepido pian delle marine;
Tal per queste campagne andai contento
In fin che non ci fu Tirsi rapito,
27Tirsi, che di noi tutti era ornamento.