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del chiabrera 247


A ciascun’ora quel piacevol vento,
     Che fea del bosco mormorar le fronde,
     Dolce feriva nel vivace argento
     124Del bel torrente, e n’increspava l’onde:
     Ma chi potria narrar l’almo concento
     Degli augelletti, che la selva asconde,
     Quando il Sol mette a’ suoi destrieri il freno,
     128E quando posa ad Anfitrite in seno?

Tra gl’infiniti, che innalzando i canti,
     Mandano al ciel le care note insieme,
     Talora udiasi rinnovar suoi pianti
     132La tortorella, che solinga geme;
     E la dolente, che cangiò sembianti,
     Posta da Amore intra miserie estreme,
     Iti chiamava Filomena, ed Iti,
     136Ah misero Iti, rispondeano i liti.

Or quivi stando Callinice, offerse
     In loggia aperta d’un bel Sole a’ rai
     Sue belle chiome, che in belle onde terse
     140Sì chiaro il Sol non rimirò giammai,
     Ed il misero Osman tosto le scerse:
     Ei procacciando di dar pace a’ guai,
     Da quelle selve dipartir non suole
     144Ed ecco vide il suo bel Sole al Sole.

Subitamente dal desir sospinto,
     A lei manifestarsi ei muove il piede;
     Ma tosto poi da riverenza vinto,
     148Timido divenuto, indietro ei riede:
     Di pallor, di rossore in viso è tinto,
     Non sa s’ei vede il vero, o s’ei nol vede:
     Da sì diverse passioni oppresso,
     152A quella loggia al fin fassi da presso.

La bella donna a ravvisar non tarda
     Il Turco amante, e ne pigliò disdegno,
     E co’ begli occhi oscuramente il guarda,
     156E se scotendo, di partir fe’ segno,
     Ed ei gridava: Un, che si strugga ed arda,
     È così dunque d’ascoltarsi indegno?
     Infinito dolor non si consola?
     160Tanto timor d’una preghiera sola?

A questi detti di partir s’invoglia
     La Damigella; indi si ferma in petto
     Quivi ascoltar, per dimostrar sua voglia,
     164Poi fargli sempre universal disdetto:
     Allora il Turco a raccontar sua doglia
     S’apparecchiava, e con afflitto aspetto,
     E sospirando, e palpitando fisse
     168Gli occhi nel volto della donna, e disse:

Donna, se miei pensier, se miei desiri,
     Che serbansi nel cor sincero e puro,
     E se il focoso ardor de’ miei sospiri
     172A’ sereni occhi tuoi non punto oscuro;
     E se la sofferenza de i martiri
     Non usati a provarsi, io ben misuro
     Con quella eterna rigidezza, onde armi
     176L’alma gentil, gran meraviglia parmi.

Ne so trovar cagion, perchè tua mente
     Si trastulli nel duolo, onde io mi moro,
     Se non perchè da voi diversamente
     180Nell’alto ciel la Deïtate adoro:
     Se ciò vêr me ti fa crudel, repente
     Vedrai lasciarmi ogni costume Moro,
     E tu, che nel mio cor siedi reina,
     184Mi detterai la legge anco divina.

Ma colà, dove a gindicar si prende
     Sul guiderdon d’un amoroso ardore,
     Deve forse bastar, s’egli s’attende
     188Solo alla legge, che ne detta Amore;
     E trattando di ciò, chi mi riprende?
     Quando peccai? dove commisi errore?
     Certo il misero Osman non può dannarsi
     192Fin qui dal giorno che ti vidi, ed arsi.

Non pria giunse il tuo volto al guardo mio,
     Che tutta l’alma alle tue voglie esposi,
     Sicchè del genitor mi prese obblio,
     196E le case paterne in bando io posi:
     Qui di fermare albergo ebbi desío,
     Qui far la vita, e qui morir disposi:
     E nel fulgido ciel di queste parti
     200Inchinar tue bellezze, ed adorarti.

E perchè no? se de’ tesori suoi
     Natura in te tanta abbondanzia piove?
     Che fuor del volto, e de’ begli occhi tuoi
     204Farsi felice uomo dispera altrove.
     Puoi col bel guardo incenerir; ma puoi
     Rinnovellarne poscia in forme nuove:
     E son tue grazie a tramutar possenti
     208In fonti di gioir tutti i tormenti.

Oh sovra ogni altro peregrin beato,
     Oh venturosi in viaggiar miei passi,
     Se, Te chinando dall’eccelso stato,
     212Me tuo fedel de’ tuoi favor degnassi;
     E se ben tanto ti seconda il Fato,
     Che ogni mortal prosperità trapassi,
     Pur, se a me non sdegnar pieghi tuoi spirti,
     216Non arai, Callinice, onde pentirti.

Qual sia lo scettro suo, quanto Ottomano
     Quaggiù comandi a chi non è palese?
     Ed egli di tesor con larga mano
     220A mio padre Giaffer stato è cortese:
     Ciò che in armi solcar per l’Oceano
     Di navi suol per le reali imprese
     Ei regge; ed è soggetto al suo potere
     224L’onorato valor di mille schiere.

Pensar quinci si può quante ricchezze,
     E gemme e pompe ed onorate spoglie,
     E quanti servi e quante ancelle avvezze
     228Saranno ognora ad ubbidir tue voglie:
     Perchè dunque nudrir tante fierezze?
     Perchè bramar ch’io mi consumi in doglie?
     E sostener che si rimiri uom vivo,
     232Ma d’ogni bene, e della vita privo?

Aspro destino! e chi nomar può vita
     Questa, che in guisa tal mi si concede?
     Il viso chin, la guancia impallidita,
     236Nubilosa la fronte, infermo il piede:
     Sempre fanno sospir dal petto uscita,
     E gli occhi afflitti il sonno unqua non vede,
     E nel profondo dell’angosce estreme
     240Non mi conforta pure ombra di speme.

O per gli egri mortali in questa etate
     Di celeste splendor lampa superna,
     Se quella, onde sfavilli alma beltate,
     244Siccome immensa, anco diventi eterna:
     Deh per te non si giunga a crudeltate;
     Ne l’imperio d’amor mai sempre scherna,
     Ma schifa al fin d’abbominevol scempio
     248Rimanga al mondo di clemenza esempio